
Fino a stasera 18 maggio alle Ex Scuderie delle Cascine, la performance di Federica Santoro, Luca Tilli e Gabriele Portoghese.
L’Anitra Selvatica di Ibsen: dramma borghese, dramma dell’ideale, dramma dei simboli. Sono più di 130 anni che lo andiamo a vedere, che lo applaudiamo e che, a dire il vero, non lo comprendiamo fino in fondo. E fino a qui tutto bene. Ma ammettiamo, anche solo per un momento, che abbiano ragione i sociologi e gli opinionisti e che veramente i tempi, questi nostri tempi, stiano cambiando. E’ vero che oggi borghesi lo siamo un po’ tutti e idealismo e cinismo si assomigliano al punto da non poter distinguerli l’uno dall’altro. E i simboli? Inutile parlarne, perché tra emoticon e tic linguistici da tribuna politica oramai, noi parliamo solo per simboli. E allora, da dove ripartire per mettere in scena L’Anitra Selvatica, un’ opera che ha ancora tanto da dire, da offrire e da infastidire?
Semplice: dal testo, o più specificatamente dalle sue parole.
Questa sembra essere l’intuizione alla base della performance di Federica Santoro: in questa Anitra non solo si gioca con la linea narrativa originale, tagliata e ricucita in modo da creare un mosaico simile a quello di un thriller investigativo, ma soprattutto c’è un grande lavoro sul suono archetipo delle parole. In scena, la Santoro e il bravissimo Gabriele Portoghese interpretano tutti i personaggi del dramma: così, quando a parlare è il vacuo idealismo di Gregers Werle o il qualunquismo dei ciambellani titolati, la voce di Portoghese è chiara, ma al contempo monotona, continuamente alla ricerca di uno slancio che quei personaggi sanno di non possedere . Di contro, la voce che Federica Santoro dona a “I sommersi” , ovvero i membri della famiglia Ekdal e il loro supposto prevaricatore, il signor Werle padre, è annoiata, meccanica, ma capace all’improvviso di trasformarsi in un tuono, drammatico e incisivo.
Ed ecco che attraverso il suono delle parole, ci pare di intravedere qualcosa: la chiave di lettura, il senso di quel “ tributo all’esigenza dell’ideale” che Gregers si dice pronto a pagare. Ci sono voluti più di 130 anni, ma…
Ma poi Luca Tilli prende posto con il suo violoncello e inizia a suonare. E con la musica compare un dipinto, il quadro di Ettore Frani che da lì alla fine della performance ruberà la scena a tutti: attori, musicisti, suoni, parole e soprattutto a noi, fino a un momento prima convinti di avere Ibsen in pugno e ora, di fronte a quel quadro reale nel quadro teatrale, di nuovo spettatori. Di nuovo impotenti e appagati al cospetto della sua misteriosa, disarmante e innegabile onestà.
David Della Scala