Otomo Yoshihide e Chris Pitsiokos: un po’ anarchia, un po’ maniera.

L’esibizione live del pioniere giapponese e del sassofonista di Brooklyn al Tempo Reale Festival spiazza, infastidisce, incanta. In una parola: memorabile.

Il mondo si divide in due categorie di persone: chi ama le montagne russe e chi non può proprio sopportarle.  Personalmente io faccio parte della seconda categoria. Me ne sono reso conto la prima e l’unica volta che ci sono salito: mentre i miei amici urlavano come matti e si godevano l’adrenalina io tenevo gli occhi chiusi e pregavo Dio che mi uccidesse lì, su quel sedile a sessanta metri di altezza per non prolungare la tortura delle mie viscere e dei miei otoliti che si shakeravano insieme. Insomma, non è un fatto di gusto o di preparazione, semplicemente c’è chi è strutturalmente predisposto a roteare e cadere nel vuoto a 120 chilometri all’ora e chi non può sopportarlo.

Allo stesso modo, quando la musica non è solo una partitura, un logaritmo di Shazam o un argomento filologico, insomma quando la musica torna ad essere quello che materialmente, fisicamente e pure poco romanticamente è, ovvero un suono che si propaga nell’aria ad alto volume, ecco che il genere umano si divide in due ulteriori e nette categorie: quelli che il noise Jazz di Otomo Yoshihide possono ascoltarlo e chi è costretto a fuggire dalla sala per non rimanere dilaniato dalla sua fisica, concreta e trapanante violenza.

Il concerto alla Limonaia di Villa Strozzi si apre con un solo al sassofono contralto di Chris Pitsiokos: le note acute che fuoriescono dal suo strumento generano un canto di armoniche taglienti che ricorda quello di un aulus della Grecia antica. E’ già una dichiarazione di intenti, un avvertimento: nell’ora di musica che seguirà la melodia sarà solo un incidente o tuttalpiù un contrappunto per rendere omaggio al suono nella sua accezione più pura. Il sax tace ed ecco apparire Otomo Yoshihide che si siede dietro al giradischi e afferra la sua chitarra semiacustica. Indossa una vestaglia, un paio di jeans, le scarpe da ginnastica: non è lui ad entrare in scena ma toccherà a noi entrare nel suo mondo, nella sua stanza sonora. Otomo percuote le corde del suo legno con un diapason, con le nocche delle dita, i pick up raccolgono quei gesti mandando gli amplificatori in saturazione, la sala inizia a rimbombare, il mostro elettrico fa la sua prima apparizione.

Poi Yoshihide posa la chitarra a terra e mette mano ai giradischi, i due musicisti iniziano a duettare. Vale tutto: Chris Pitsiokos soffia nel suo sax, canta nel suo sax, estrae l’ancia e la usa come uno strumento a sé stante, Otomo sfregia i vinili con le mani, con il taglio di un foglio di carta, indugia su un ronzio di fondo mentre il sax accenna cinque sommesse note di blues per tornare a ragliare come una bestia ferita. Il suono si dilata, si indispettisce, raggiunge picchi altissimi, qualcuno in sala inizia a portare i palmi delle mani sulle orecchie. Il mostro elettrico si erge e chi ne riesce a sopportare la presenza si gode le vibrazioni che i bassi provocano nello sterno e il fischio dei sovracuti nelle tempie. Ma tra il pubblico c’è già chi si alza ed esce, fuori dalla portata di quel rumore assordante. Noi che invece rimaniamo seduti, ogni volta che un pezzo finisce espiriamo come alla fine di una corsa, in attesa che quella affascinante cacofonia ricominci. Perché quella non è musica, non è rumore: è suono, solo suono. E ci manda in estasi.

Eppure pezzo dopo pezzo, anche chi è strutturalmente in grado di sopravvivere alla selezione naturale  comincia a decodificare  quel linguaggio e aldilà delle trovate estetiche, a distinguerne le ripetizioni e i vizi di forma. Il noise jazz di Otomo Yoshihide seppur frutto dell’istintività, non riesce ad esimersi dal manierismo. Quell’apparente anarchia ha qualcosa di navigato e, ahimè,  di comodamente ruffiano. Da un lato gli fa onore, perchè in questo traspare tutto il suo mestiere di autore e compositore, ma dall’altro delude un po’. Il vecchio leone giapponese fa la sua cosa e lascia che sia la freschezza del giovane newyorkese a colorarla. E in questo Chris Pitsiokos si rivela veramente grande: i suoi fraseggi intensi, l’acidità del suono del suo strumento sono di un intelligenza e di una puntualità unica.

Quindi tanto di cappello al maestro Yoshihide, ma per noi dotati di orecchie solide e congenitamente in grado di sostenere questo rumoroso giro di giostra, la vera sorpresa rimarrà l’incontro con quel talentuoso ragazzo di Brooklyn e con i mille suoni del suo sax.

David Della Scala