Filippo Timi: Licenza di osare

Un Cuore di Vetro in Inverno di e con Filippo Timi spiazza e incanta il pubblico del Teatro della Pergola.

                Di David Della Scala

 

 

 

L’anticonformismo è una bestia strana. Risultare sempre eclettici, sempre innovativi, sempre personalissimi rischia di divenire una trappola mortale, perché il passo dall’anticonformismo alla maniera può essere molto breve. Eppure una strada per continuare a sorprendere sinceramente il pubblico esiste e, manco a dirlo, è quella più difficile da intraprendere: la ricerca. La ricerca continua.

Ora, Filippo Timi è Filippo Timi… e lui lo sa bene. Sa di poter contare su un pubblico che lo ama, che ama vederlo, ascoltarlo, che ama lasciarsi trascinare nel suo mondo. Allo stesso modo è ben cosciente dell’esistenza di un’altra fetta di spettatori che lo guarda con sospetto e che comunque gli dedica attenzione, se non altro per bofonchiare: “Vediamo che s’è inventato stavolta.”

Così Timi, con la sua affabile sfrontatezza, va dritto per la sua strada e spettacolo dopo spettacolo, drammaturgo di se stesso, costruisce la sua attorialità.  Ma quando fa un passo avanti verso il proscenio e guarda sorridente verso il pubblico in sala, i suoi occhi sembrano cercare non tanto chi lo ama a prescindere ma piuttosto chi diffida della sua arte. Il suo non è un sorriso di sfida, ma quello di un attore che sa di poter contare sul suo instancabile e appassionato lavoro di ricerca poetica.

Ne è un esempio questo Un Cuore Di Vetro in Inverno, in scena al Teatro Della Pergola, uno spettacolo che rappresenta coi suoi pregi e i suoi difetti, un vero e proprio laboratorio d’espressione e di contenuto nel percorso intrapreso da Filippo Timi.

Il suo personaggio è quello di un cavaliere umbro, che disilluso dall’epica del coraggio e dell’idealismo romanzesco si è ormai immerso nella vita reale, tanto da accompagnarsi con uno sgangherato manipolo di personaggi: un vecchio giullare incapace di raccontare una storiella senza finire a piangere, una giovane prostituta già saggia quanto disperata e un giovane scudiero rassegnato a dover campare come assistente del mestiere delle armi. E a vegliare sul cavaliere, il suo angelo custode: una delicata creatura lunare che lo ama e lo segue da così tanto tempo da non esser più capace del distacco tipico della sua natura ultraterrena, ma comunque perplessa di fronte ai meandri dell’anima umana.

Ma ecco che per quanto svogliato e pavido, il cavaliere decide di lasciare la sua casa e la sua sposa per tentare l’impresa delle imprese, provocando grande sgomento nel suo seguito:  andrà ad uccidere un drago. Il drago, simbolo del pericolo ultimo, incarnazione di tutte le paure, custode di ogni tipo di ricompensa, materiale e dello spirito.

Il testo gioca su diversi registri. Anche se l’immaginario generale è quello degli spettacoli di strada dei saltimbanchi seicenteschi, come nelle fiabe di Giambattista Basile, ai singoli personaggi vengono affidate divagazioni poetico filosofiche, aneddoti biblici dal sapore apocrifo, siparietti erotici alla Ruzzante e persino l’accenno a canzoni di Battisti e Gigi d’Alessio. Il modo in cui Timi apre e chiude queste parentesi narrative rimanda allo stile cinematografico di Fellini in Amarcord, di  Buñuel o Pasolini in Uccellacci e Uccellini. Come se non bastasse l’intera avventura cavalleresca è introdotta e chiosata dagli estratti radiofonici che commentarono l’allunaggio del 1969. Il tutto coadiuvato dalle bellissime scene costruite presso il laboratorio del Franco Parenti di Milano che rendono la storia un libro animato, con i suoi essenziali elementi che si muovono tridimensionalmente sul palco come in un teatro barocco. Insomma proprio come nella tradizione delle rappresentazioni giullaresche Un Cuore di Vetro in Inverno si presenta come un piatto grande e vario, pieno di spunti e di riflessioni sul coraggio, sui limiti dell’umano e sulla paura di vivere.

Tante riflessioni, tanti spunti… pure troppi per essere digeriti.  Ed è un peccato perché il testo raggiunge dei momenti davvero alti. Ad esempio quando il cavaliere nudo sotto la neve descrive il ricordo della madre come un debole fuoco acceso nel tentativo di indicare una via nel buio, oppure la frase  “io non mi fido, ma voi fidatevi pure di me, perché la sfiducia non deve essere per forza reciproca” che lo scudiero rivolge al pubblico. Per non parlare dell’immagine della Madonna che si percuote il ventre per abortire e quando un’ intera schiera di angeli cerca di fermarle la mano, la voce narrante dichiara “la mano di una giovinetta era più forte della loro”.

Certo alcuni punti fermi ci sono: oltre alle già citate macchine sceniche, gli interpreti. In particolare una sorprendente Marina Rocco che nel ruolo dell’angelo custode è sia macchina che attrice. Intrappolata in un carrello che la muove da destra a sinistra del palco e viceversa, la sua interpretazione perfettamente in equilibrio tra il parodico e l’intenso la rende una memorabile Marilyn Monroe ex machina.

Un Cuore di Vetro in Inverno di Filippo Timi è uno spettacolo che lascia interdetti  perché contiene parole, immagini, concetti che lo spettatore non riesce a raccogliere se non in minima parte e che per il loro potenziale lirico e simbolico meriterebbero un’incisività maggiore.  Ma forse è questa la vera cifra di questo spettacolo:  il suo essere imperfetto e quindi aperto,  in itinere. Un coraggioso, sfrontato esempio di ricerca teatrale.