
Declan Donnellan trasforma la Pergola in un teatro inglese del seicento… e risveglia la sete di sangue del pubblico
Di David Della Scala
A teatro non si può cambiare canale. Non puoi mettere in pausa per fare il caffè e non sta neanche bene fare commenti ad alta voce tipo “ora lo ammazza” o “secondo me è stata lei”. Ti proibiscono addirittura di tenere acceso il cellulare per dare un’occhiata ad istagram quando ti annoi. Validi o meno, questi sono alcuni dei motivi per i quali la gente, o tempora o mores, a teatro non ci va.
Eppure nel Teatro Elisabettiano o in quello Giacobita il pubblico anche se privo di Istagram, di baccano (leggi casino) ne faceva parecchio. Sul palco “a grembiule” gli attori erano praticamente dati in pasto alla platea che dopo aver pagato ben due penny per assistere alla rappresentazione rivendicava il sacrosanto diritto di lanciare invettive, quando andava bene, o oggetti più o meno contundenti contro la povera compagnia in scena, se quello che vedeva non era di suo gradimento. La cosa positiva era che commediografi e attori non dovevano aspettare i commenti su twitter la mattina dopo per capire se lo spettacolo fosse piaciuto o meno. Uscirne vivi era già un gran segnale di gradimento.
Esattamente come gli showrunner delle serie televisive odierne, le compagnie teatrali del 600 dovevano dare al pubblico quello che voleva e contemporaneamente stupirlo con sempre nuove trovate. Altrimenti veniva giù il teatro, nel senso brutto del termine.
E a Declan Donnellan, uno dei più grandi divulgatori teatrali dell’opera di Shakespeare e in generale della letteratura inglese, queste cose non si insegnano. Per la sua prima produzione in Italia sceglie proprio La Tragedia Del Vendicatore, un testo che Thomas Middleton ambientò nel bel paese, che per lo spettatore inglese del seicento bello non era per niente ma anzi rappresentava per antonomasia il luogo della corruzione morale e politica: un po’ come lo era la Russia per gli americani degli anni 50. Eppure la Tragedia del Vendicatore era un monito per l’Inghilterra post elisabettiana, una feroce contestazione della putrefazione dei valori in cui stava scivolando e che l’avrebbe portata all’epurazione puritana.
A differenza del collega e contemporaneo Shakespeare, Middleton non andava troppo per il sottile. E questo adattamento la cui versione italiana porta la firma di Stefano Massini, ne restituisce tutta la potenza, la crudeltà e il gusto per il macabro e il truculento. I fatti di sangue che si consumano alla corte di un duca spregiudicato e al di sopra delle leggi e la sete di sangue e di vendetta mascherata da giustizia dell’ossessionato Vindice appassionerebbero Quentin Tarantino, ma non a causa di una forzata attualizzazione di linguaggio, ma per lo splendido lavoro con il quale Donnellan e Massini hanno enfatizzato gli aspetti venerei, tendinei del testo originale.
In un’azione quasi del tutto confinata al proscenio, Fausto Cabra, che nel ruolo del vendicatore detta abilmente il ritmo della narrazione, guarda il pubblico negli occhi e fin da subito dichiara le sue intenzioni: sarà lui a guidarci passo dopo passo nella spirale di violenza della tragedia. Lo assisterà il fratello Ippolito, che un bravissimo Raffaele Esposito tratteggia con misura, dando vita ad un golem in equilibrio tra bonarietà e pratica spietatezza. Oggetto della vendetta è l’altezzoso Duca, che Massimiliano Speziani senza aggiungere o togliere una parola dal testo originale, trasforma in un capo mafia alla Soprano, piccolo di statura e di morale, ma soddisfatto della sua grande ombra sotto la quale ha educato i figli, cannibali quanto lui. E il suo primogenito “Lussurioso” (in italiano nella scrittura di Middleton) è il degno frutto della sua discendenza: perverso, isterico, lascivo, la cui inettitudine è compensata dalla sua macchinosa malizia. Un villain perfetto interpretato da un meraviglioso Ivan Alovisio che, almeno agli occhi del sottoscritto articolista, si è prodotto in una prova attoriale non del tutto levigata, ma forse per questo indimenticabile, con un piede lievemente in pressione sull’acceleratore che mi ha regalato dei gradevolissimi schiaffi in faccia.
Donnellan in questa Tragedia del Vendicatore si avvale di una compagnia di attori per la maggior parte formati al Piccolo Di Milano: interpreti capaci di attivare ognuno una propria drammaturgia funzionale all’intreccio e alla credibilità dei personaggi. Lo rivela l’interplay tra David Meden e Cristian De Filippo, i figli della duchessa, anche loro pronti ad ogni bassezza per raggiungere il titolo di duca, o l’interpretazione di Pia Lanciotti ,nel doppio ruolo della degenerata duchessa e della degenerabile povera madre Graziana: due spietati ritratti femminili che occupano opposti lati della medesima medaglia e che alla fine trovano sembianza nel volto cangiante della giovane vergine Castiza, interpretata da Marta Malvestiti. Alessandro Bandini e Errico Liguori, rispettivamente il più giovane per discendenza e il bastardo del Duca, ben incarnano la sognante strafottenza dei loro personaggi, due poveri illusi condannati ad essere carne da macello in questo spietato affresco familiare.
La folta schiera degli altri numerosi personaggi del dramma originale, cortigiani, attendenti, giudici e boia, è affidata ad una squadra di bravissimi comprimari: Beatrice Vecchione, Ruggero Franceschini e Martin Llunga Crishimba, alla testa dei quali c’è Marco Brinzi, il cui volto affilato, ieratico e perplesso di fronte alla disumanità dei personaggi principali è il nostro volto, il volto del pubblico e del popolo inerme di fronte agli eventi. Il ruolo di questo gruppo di “minori” è in realtà il vero motore della macchina scenica e narrativa. Sono loro che realizzano il progetto di Donnellan e dell’autore delle scene Nick Ormerod: trasformare un teatro all’italiana in un teatro Elisabettiano, sfruttandone a tempo debito la profondità per renderlo un inner stage pieno di stanze segrete… o addirittura uno schermo cinematografico. Si, perchè nelle scene più truculente e macabre la Vecchione, Franceschini, Crishimba e Brinzi diventano videoperatori che, telecamere alla mano, filmano l’azione scenica e la proiettano sullo sfondo con una pornografica attenzione ai particolari. E mentre sul palco hanno luogo torture e mutilazioni con tanto di schizzi di sangue degni del Grand Guignol, le proiezioni ci mostrano i primi piani dell”assassino e delle sue vittime con un taglio che fa invidia ad una delle migliori puntate di Dexter. E per quanto sia violento, eccessivo, sadico… non si può far a meno di guardare.
Seduti in poltrona davanti ad un crime del nuovo millennio o pigiati nella calca della platea di un teatro del 1600, ci mordiamo le labbra e in silenzio attendiamo che il sangue zampilli fuori dallo squarcio della vendetta. E in quell’attimo, per niente al mondo cambiaremmo canale.
Dal 12 al 16 dicembre al Teatro Della Pergola
(ore 20:45, domenica ore 15:45)
Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione
LA TRAGEDIA DEL VENDICATORE
di Thomas Middleton
versione italiana Stefano Massini
con Ivan Alovisio, Alessandro Bandini, Marco Brinzi, Fausto Cabra, Martin Ilunga Chishimba, Christian Di Filippo, Raffaele Esposito, Ruggero Franceschini, Pia Lanciotti, Errico Liguori, Marta Malvestiti, David Meden, Massimiliano Speziani, Beatrice Vecchione
scene e costumi Nick Ormerod
luci Judith Greenwood, Claudio De Pace
musiche Gianluca Misiti
drammaturgia e regia Declan Donnellan