
Emozionante, implacabile. La bravura dei suoi interpreti fa “vibrare” Copenaghen
di David Della Scala
Non sarà elegante, ma vorrei subito mettere in chiaro una cosa: io non capisco niente di fisica quantistica. Purtroppo non sono dotato di una mente logica e quando qualcuno mi parla del principio di indeterminazione o del paradosso di Schrödinger posso solo dire che pur essendo un tipo da cani mi dispiace per quel gatto chiuso in una scatola che nessuno sa se sia morto e che ho pianto come una vite tagliata guardando il finale di Interstellar. Tutto qua.
Potete immaginarvi dunque quanto mi sia sentito inadeguato sapendo di dover scrivere una recensione per Copenaghen, lo spettacolo di Micheal Frayn con la regia di Mauro Avogadro in scena in questi giorni al Teatro Della Pergola, dove si racconta dell’incontro tra due padri della fisica quantistica: i fisici Werner Karl Heisenberg e Niels Bohr.
In passato mi è già capitato di sottopormi a abbondanti somministrazioni di nuova catechesi scientifica. Ad esempio con la visione di film dal sapore parrocchiale come “Il Senso Della Bellezza” che, se non altro, hanno arricchito il mio vocabolario di termini decontestualizzati da sciolinare dopo cena, tra il caffè e la grappa. Ma stavolta, mi trovo di fronte a qualcosa di completamente differente. Perché se è vero che il testo di Copenaghen gira intorno al mistero sui motivi che spinsero Heisenberg, a capo del programma nucleare tedesco, a far visita nella Danimarca occupata dai nazisti al suo ex maestro Niels Bohr e che il linguaggio dello spettacolo è il linguaggio della fisica teorica, è fin da subito chiaro che sia l’evento storico, quanto la celebrazione della grandezza del pensiero scientifico sono solo un pretesto per mettere in scena un dramma denso di tensione narrativa, di ambiguità, di coraggio.
La domanda è: perché l’allievo schierato dalla parte della nazione che al tempo aveva già occupato gran parte dell’Europa volle incontrare il suo insegnante, il vecchio amico già condannato per le sue origini ebraiche a scegliere tra la deportazione e l’esilio? E cosa si dissero in quell’occasione?
Copenaghen è la risposta. O per dirla in maniera “quantistica”…una delle risposte.
In una scena che potrebbe essere un’aula di fisica o la casa danese di Niels Bohr dove lui e sua moglie Margrethe ricevettero la visita di Heisenberg, inizia il dialogo tra i tre personaggi, rispettivamente interpretati da Umberto Orsini, Giuliana Lojodice e Massimo Populizio. Ma attenzione, davanti a noi non c’è la cronaca di ciò che accadde: ma bensì i fantasmi o tuttalpiù le manifestazioni persistenti dell’energia dei due fisici e della donna, che anni dopo la loro morte tenteranno di ricostruire quell’episodio privato per chiarire a loro stessi, prima che al pubblico ciò che venne detto e perché venne detto. Dallo squillo del campanello di casa Bohr che annuncia l’arrivo di Heisenberg, fino allo scontro verbale tra i due scienziati che ne sancì la definitiva separazione ideologica e umana, i tre personaggi ripercorreranno i loro gesti e le loro parole rimettendole in atto una, due, tre, infinite volte. E ogni volta la realtà della memoria verrà rimessa in discussione, ribaltata, sviscerata fino alla compilazione di una formula di singolare bellezza e autenticità che valga da strumento per la comprensione dell’esistenza e della sofferenza umana.
La misura e il senso dell’opportuno di Orsini, la forza della figura terza della Lojodice e l’appassionata quanto temperata potenza dell’interpretazione di Massimo Populizio, la cui prova assomiglia a quella di un violino solista che sa regalare momenti sublimi pur rimanendo al servizio dell’orchestra: il lavoro in scena dei tre attori è la chiave per comprendere cosa sia Copenaghen.
Copenaghen di Micheal Frayn è musica, un concerto dove le formule fisiche sono lo spartito e la natura umana lo strumento. E la storia…una delle tante storie possibili. Tre meravigliosi attori, una regia precisa per tempi e tensione, un testo del quale la traduzione italiana ha preservato l’impalcabile forza, un allestimento efficacie. E la cosa migliore è che per amarlo… non serve essere dei geni.